–di Cristian De Mitri * e Nicola Comelli ** 21 febbraio 2019
Resilienza, talento, co-design, mindfulness, disruption, creatività e, da ultimo, persino fallimento. Negli ultimi anni il lin
guaggio aziendale si è arricchito di un numero crescente di termini. Non si tratta solo di mode, nonostante in molti casi queste nuove parole venga
no usate senza una conoscenza precisa del loro significato. Le dinamiche aziendali, infatti, hanno conosciuto uno sviluppo che necessariamente ha dovuto fare proprio un vocabolario adeguato. Stupisce però notare che da questo lessico manchi del tutto il termine “coraggio”. Un termine che qualifica un’attitudine antichissima e che però pare non trovare posto all’interno di uffici e sale riunioni.
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La carriera deve «fare un tagliando», proprio come le auto
In una dimensione, quella aziendale, che punta sempre di più a esaltare l’individualità, a promuovere le caratteristiche del singolo e farsi il più inclusiva possibile, manca totalmente l’attenzione a una componente fondamentale dell’identità umana: il coraggio, per l’appunto. Non è facile comprendere il perché di questa esclusione eccellente. Per riuscirci è importante definire cosa si intende per “coraggio”. Questa parola, solitamente, viene associata a un atto straordinario, se non addirittura eroico. Più tecnicamente, potremmo definire il coraggio come quel fattore che si frappone tra la rabbia e la grinta, riprendendo l’analisi condotta su quest’ultima forza da Angela Duckworth, proprio in «Grinta. Il potere della passione e della perseveranza» (Giunti Psychometrics).
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Più concretamente, possiamo considerare il coraggio l’impulso che è in grado di trasformare la rabbia – o comunque il dissenso o la resistenza al cambiamento – in una forza di propulsione positiva, destinandola a trasformarsi a sua volta in quel moto virtuoso rappresentato dalla grinta. Il coraggio, in altre parole, è una sorta di scintilla, capace di innescare un processo irreversibile. In questo senso, un’azienda che voglia investire sul coraggio e su quello che esso comporta dovrebbe, in prima battuta, attendersi l’attivazione di processi potenzialmente non reversibili.
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E già qui si potrebbe individuare una prima conclusione, intuitiva e veritiera: le aziende non possono permettersi di vedere innescarsi al loro interno processi individuali non reversibili. Ma è realmente questa la risposta alla paura del coraggio? In realtà, è necessario fare un ulteriore passo indietro. Occorre prendere in esame in modo più approfondito la relazione che le aziende hanno con il dissenso e la resistenza al cambiamento, se non proprio con la stessa rabbia. Molte organizzazioni, infatti, consapevolmente o non consapevolmente, hanno come obiettivo principale la gestione di queste componenti che vengono espresse da dipendenti e collaboratori.
Spesso, gli sforzi più significativi e continui che vengono prodotti dalle aziende sono finalizzati a tenere a bada queste forze. A mantenerle sotto una determinata soglia. Il mancato superamento di questa soglia rappresenta una specie di assicurazione per le parti più alte della piramide organizzativa, mettendole al riparo proprio dalla trasformazione della rabbia in coraggio. E quindi, proteggendole dall’attivazione di processi irreversibili di trasformazione. Un’esigenza certamente comprensibile, ma siamo sicuri che sia necessaria?
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Oggi per essere efficace il manager deve governare la complessità
Da un lato, tenere a bada la rabbia risponde a una necessità operativa, funzionale ad assicurare la dovuta prevedibilità ai cicli di produzione; dall’altro, governare la soglia della rabbia consente quelle rendite di posizione manageriale che ormai sono tipiche di tante realtà, anche di medie dimensioni. Scardinare questo assetto è il solo modo per liberare il coraggio, e far defluire in modo costruttivo l’emotività meno edificante. Come è possibile farlo, però, in una cornice di “sicurezza”?
Una delle modalità che permette questa regolazione di flusso è quella di abilitare alla richiesta di informazioni chi opera all’interno dell’azienda. Una delle prime cose che fa un arrabbiato è quella di farsi delle domande. «Perché accade tutto questo?»; «Perché proprio io sono il protagonista di questa situazione». Un’azienda ha la necessità quindi di abilitare le domande e di fornire le risposte. L’obiettivo non è quello di anestetizzare l’emotività negativa: la frustrazione, il dissenso e la stessa rabbia, così come lo stress e l’ansia, sono componenti insopprimibili dello stare al mondo, e a maggior ragione lo sono in una dimensione lavorativa.
La sfida, semmai, è quella di mettere a disposizione dei meccanismi di compensazione che possano fare sì che queste spinte emotive acquisiscano un senso, anche trasformandosi in coraggio. Il rischio di non farlo è quello di attivare dei processi di logoramento il cui impatto sul capitale umano può essere davvero notevole. Notevole e silenzioso, oltre che non misurabile. Un’organizzazione capace di abilitare il coraggio, interpretandolo come una normale competenza, fa un passo decisivo nella direzione della sostenibilità emotiva del lavoro, che rappresenta la grande sfida per chiunque oggi, all’interno delle aziende, si occupa di persone.
* Ceo Eggup
** Co-founder Eggup
Talentform è partner capital di Eggup